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12 Febbraio 2011“Mi prendo cura, quindi sono” – Carlo Donadel per la Giornata della Vita
“Educare alla pienezza della vita” era il tema 2011 della Giornata per la Vita che la Chiesa italiana ha celebrato domenica 6 febbraio. In quest’occasione a Vittorio Veneto si è tenuta una veglia guidata dal vescovo mons. Corrado Pizziolo. E a cui è stato chiamato a portare una testimonianza e a dare spunti di riflessione Carlo Donadel (nella foto piccola), che per la Fondazione Piccolo Rifugio è responsabile della progettazione sociale e della formazione.
Riportiamo qui di seguito alcuni passaggi del suo intervento, quelli più specificatamente incentrati sulla vita quotidiana nelle comunità chiamate Piccolo Rifugio.
Mi prendo cura, quindi sono
Per ciascuno degli ospiti di un Piccolo Rifugio, i diversi incontri con altre persone sono occasione anche per sentirsi importanti per qualcuno. Non si fa solo l’esperienza di essere destinatari di aiuto o di servizi, bensì si realizza un valore di grande pregio: la reciprocità .
Questo accade anche all’interno della comunità, nella vita quotidiana: quando ci si interessa dell’altro, ci si preoccupa per lui, ci si prende cura, fosse anche solo attraverso uno sguardo carico di affetto.
Un filosofo contemporaneo afferma che il tratto distintivo della persona umana corrisponde alla sua capacità di prendersi cura. Ciò non vale solo per chi ha compiti di aiuto, ma per tutti, quindi anche per chi è in situazione di fragilità. Il punto di realizzazione della dignità della persona è essere non solo destinatari, ma anche soggetti attivi della cura.
Pensare alla dignità delle persone disabili è pensare di aiutarli a realizzare la condizione per cui possono essere qualcuno per qualcun altro.
Per operatori ed educatori la fatica della complessità
La comunità è accompagnata da un gruppo di operatori, educatori. Anche loro fanno la fatica quotidiana di imparare a conoscersi, per far proprio un metodo e per comporre modi di vedere diversi. Si trovano, con ruoli assimilabili a quelli dei genitori in una famiglia, a far parte della comunità.
La loro fatica più grande? Potremmo chiamarla la complessità. La fatica non è occuparsi di protocolli di servizio, di procedure standard, di tempi per svolgere determinate operazioni. Ciò che mette in difficoltà, invece, è lo stare dentro la vita degli ospiti della comunità : accompagnare le loro domande, comprendere le loro reazioni, cercare le modalità più appropriate per rispondere. Un lavoro difficile, perché le risposte non sono mai a tinte nitidamente bianche o nere, bensì spesso e volentieri si tratta di tinte medie. Si tratta di assumersi la responsabilità di provare delle strategie che non si trovano scritte in nessun manuale, e, quando è possibile, si tratta si tratta di condividerle con l’interessato, a misura della sua capacità. In modo da non sottrargli il diritto ad essere protagonista delle sue scelte e del suo progetto di vita.
Amare e pregare
Ci sono istanze della persona che per motivi diversi mettono alla prova. Come quella dell’affettività o della spiritualità. Nonostante l’evoluzione della nostra cultura, siamo ancora poveri di un linguaggio adatto ad accompagnare queste dimensioni, più proprie ed intime della persona. La nostra esperienza porta con sé delle fatiche ad affrontar queste questioni.
Si è tentati dall’idea che il cosiddetto rispetto umano chieda di starne fuori. Ma l’aiuto alla persona non può essere confinato a darsi come obiettivi solo la salute e il benessere, o l’autonomia.
Se è vero che l’elemento fondante l’umanità è il senso che la persona trova per la propria esistenza, se è vero che la persona si realizza solo quando ha trovato ciò che conta davvero per la sua esistenza, allora queste dimensioni non possono star fuori campo. È il senso che sostiene il desiderio di crescita, che sorregge le motivazioni, che orienta le scelte. Allora affettività e spiritualità sono dimensioni decisive. Perché l’amore, l’innamorarsi, non è una prerogativa solo dei cosiddetti “normali”. Così è ancor di più il rapporto con Dio.
Semplificare
Tutte le volte in cui non vediamo un aspetto importante della realtà semplifichiamo. Quando ad esempio di una condizione di vita vediamo solo il dolore, quando vediamo solo l’improduttività. O quando pretendiamo che sia il ricorso al medico specialista a risolvere le questioni di senso che investono la persona.
E la semplificazione dà origine ai pregiudizi.
Non si tratta dei pensieri o delle congiure di qualche malvagio. Si tratta di ciò che condiziona da dentro il nostro modo di pensare.
Investe l’incapacità di vedere le risorse che le persone hanno. Pone un confine tra chi è al di qua dell’handicap, i cosiddetti “normali”, e chi invece si trova al di là, i “diversi”, quasi che appartenessero ad un altro tipo di umanità. E non si tratta di mere questioni concettuali: è piuttosto una modalità che contrassegna la sensibilità, la coscienza, la tendenza ad agire. Il pregiudizio si caratterizza come una tendenza invisibile che condiziona dall’interno il pensiero e l’azione. Si traduce in atteggiamenti. È un meccanismo invisibile che investe le decisioni
Mi si stringe lo stomaco quando sento anche oggi trattare con superficialità i bisogni delle persone con fragilità. Quando sento affermare che hanno fin troppo. Quando sento affermare che forse non è il caso di investire tanto o di affannarsi tanto per curare.
La necessità di promuovere la cultura
Chiederei infine, a ciascuno e a tutti, che ci si dia una mano per promuovere la cultura
La vita chiede che se ne rispetti la complessità . Chiede che investiamo in modo convinto in cultura. Possiamo davvero aiutare la cultura della vita se promuoviamo la cultura. Non il sapere accademico, non l’istruzione di grado elevato. Bensì la cultura nel senso inteso da una pensatrice della metà dello scorso secolo: un allenamento della capacità di prestare attenzione.
Carlo Donadel